Come trasformare un modesto Variac in uno strumento fruibile

Come trasformare un modesto Variac in uno strumento fruibile

Ammetto di non aver resistito nell’usare un titolo ambiguo, di quelli che fanno scattare le domande tipo “Il Variac non è già uno strumento fruibile di per sé?”, oppure “Perché trasformare un trasformatore?”, o ancora “Che cavolo è un Variac?”. O, più semplicemente, la domanda delle domande: “Perché?”

Il Variac, per chi non conoscesse questo utilissimo strumento, è un trasformatore variabile, o meglio, un autotrasformatore variabile. La parola Variac deriva dalla contrazione del suo significato: variable AC transformer. Fu la General Radio a registrare il marchio Variac già nel 1934, e tale definizione è rimasta nell’uso comune per indicare appunto “quasi” qualsiasi trasformatore variabile.

A cosa serve il Variac?

Non vi è mai successo di dover alimentare un circuito a una determinata tensione e non avere la tensione in alternata adeguata per farlo? Certo, se non lavorate con amplificatori audio o con circuiti a pompa di energia forse non vi capita così spesso, ma vi garantisco che quando dovete avere a disposizione una sorgente AC a 44 volt – tanto per fare un esempio – non è che uscite di casa e andate al negozietto di elettronica dicendo: “Salve, mi dia un trasformatore 230 / 44 VAC”. Come intuirete dalla faccia del negoziante, 44 volt non è una tensione “standard” dei trasformatori di uso comune. Magari avete fortuna e potete trovarne uno sul web, ma a costi a volte imbarazzanti.

Schema di un variac

Schema di un variac

Amplificatori a parte, più avanti scoprirete un’utilità gigantesca di questo accessorio, perciò non è ancora il momento di fuggire urlando.

Il Variac, come detto, consente di trasformare la tensione di rete da 230 volt AC in una tensione variabile fra 0 e 230 volt AC. Questi sono ovviamente i dati di targa dei Variac economici presenti sul mercato, poi ci sono strumenti professionali con altri dati e altri scopi, ma al momento non fanno al caso nostro.

Il principio di funzionamento è abbastanza semplice: se nel classico trasformatore di norma c’è un primario (per la tensione di rete) e un secondario per l’output, nel Variac c’è un solo avvolgimento e l’output è prelevato in un punto variabile sul medesimo avvolgimento tramite un cursore a spazzola a contatto del rame. Spostando il cursore in un senso o nell’altro si ottiene una tensione variabile che va da 0 volt a 230 / 250 volt.

Note sulla sicurezza

PericoloIl Variac, non disponendo di un secondario, è un autotrasformatore non isolato galvanicamente dalla tensione di rete, pertanto dovete sapere che state lavorando a diretto contatto con un potenziale pericolo. Va anche detto che la stessa mancanza dell’isolamento galvanico implica la certezza che, con tensioni superiori a 50 volt, in caso di guasto sul circuito di prova intervenga l’interruttore differenziale del vostro impianto. A prescindere da ciò, è importante essere ben coscienti di una cosa: lavorare con la tensione di rete è SEMPRE pericoloso se non si adottano tutte le misure di sicurezza. Non è un gioco, e se pensate che lo sia, ricordate che la posta in palio potrebbe essere la vostra stessa vita.

Il problema dei variac “troppo” economici

Variac identico al mio

Variac identico al mio

Quando acquistai il Variac (di cui nella foto accanto) ero agli inizi e non avevo il budget sufficiente per attrezzare il laboratorio con prodotti di gamma professionale. Lo trovai a circa 70 euro su ebay, un prezzo assolutamente sotto la media. Quando lo ricevetti ricordo distintamente l’odoraccio di resina che emanava, unico difetto apparente di un prodotto tutto sommato accettabile. Fatta qualche prova di rito vidi che soddisfaceva le mie necessità e ne fui felice. Col passare del tempo, usandolo un pochino più spesso, mi resi conto dei suoi difetti veri e propri: nessun cordone di alimentazione (dovevi attaccare una spina volante ai morsetti), nessun interruttore, nessun fusibile, un voltmetro analogico molto piccolo e poco efficiente nel senso che per impostare una tensione di uscita bisognava sempre usare il multimetro. Ok, avevo speso pochissimo, ma il tempo che perdevo ogni volta per “assemblarlo” e renderlo usabile senza rischiare la buccia era davvero troppo. Per la sua forma oltretutto non era molto “installabile”, andava messo su un ripiano per conto suo, non potevi lasciarlo attaccato alla tensione perché non aveva interruttore e pesava come un incudine. Insomma, mi faceva passare la voglia di usarlo, nonostante il bisogno.

Le alternative

Voltcraft VIT 1000

Voltcraft VIT 1000

Qualche settimana fa, lavorando nuovamente sugli alimentatori, avevo un bisogno impellente di poter disporre di un Variac efficiente. Insoddisfatto dalla situazione fin lì tollerata, ho deciso così di cercare alternative “impilabili”, da rack o da tavolo. Ho trovato sì dei prodotti stupendi, ma tutti con costi da brividi. Un trasformatore da laboratorio Voltcraft (marchio di proprietà della tedesca Conrad) modello VIT 1000 da 1 KVA costa 670 euro, ma ha voltmetro, amperometro, un contenitore da rack 19″ usabile anche su tavolo, fusibili, interruttore di alimentazione e di disconnessione del carico, connessione frontale a spina SCHUCKO e, soprattutto, è galvanicamente isolato dalla rete. Un prodotto sicuro e ben costruito, certo, ma a un prezzo non troppo abbordabile. Altri prodotti di altre marche (su tutti Block) sono ancora più “golosi”, ma dai 1.000 euro in su. Un sogno, solo un sogno, purtroppo.

La trasformazione del trasformatore

trumeter voltmeter

trumeter voltmeter

Fatti i dovuti conti e messo da parte per un attimo il desiderio / bisogno di acquistare prodotti professionali – anche perché non era il solo Variac ad essere necessario in laboratorio, c’era molto altro, tutto molto costoso – ho così deciso di dotare il mio “el cheapo” di ciò che gli serviva per essere meno rudimentale. Una volta studiato di poter collocare il Variac in orizzontale, e individuato uno spazio nel banco di lavoro, mi sono procurato due strumenti meravigliosi prodotti da Trumeter e venduti da Conrad: un amperometro digitale CA/CC con bargraph, personalizzabile via USB, e il suo omologo voltmetro. Entrambi devono essere alimentati a parte, così ho usato uno dei miei prototipi a regolazione lineare, tanto per non farmi mancare nulla.

Il Variac finito

Il Variac finito

Avevo già a disposizione del multistrato nobilitato da 25 mm per fare il telaio, ho solo ritagliato a misura per stare nello spazio disponibile. Ho usato il 25 mm per avere robustezza sufficiente, dato che il Variac pesa da solo circa 10 kg. Se volete cimentarvi nell’opera potete usare del compensato multistrato da 25 mm, migliore del truciolare. Per il pannello frontale avevo un ritaglio di alluminio a doppio foglio con anima in PVC, roba usata dai serramentisti, lungo un metro e alto 21 cm, esattamente l’altezza del vano libero. L’ho tagliato alla misura giusta, ho disegnato le aree da traforare per far stare gli strumenti e punzonato tutte le zone da forare per viti, connettori da pannello, portafusibili e per fissare la mascherina originale del Variac. Fatto ciò ho provveduto alla foratura e al successivo taglio con seghetto alternativo; successivamente sono passato al cablaggio secondo uno schema disegnato su carta da formaggio. Poi ho fatto una prova generale e tutto sembrava funzionare.

L’inghippo

Durante il cablaggio

Durante il cablaggio

Tutto sembrava funzionare, come detto. Solo che il Variac, usato già da un po’, mi ha tirato lo scherzone. Con tutto il mobiletto montato e cablato, dopo qualche prova, davo tensione e non avevo output. Dico: avrò dimenticato qualcosa, avrò sbagliato qualcosa, penso alle masche, agli UFO, al voodoo, e comincio a riguardare tutto, a provare i contatti, a ripassare tutte le connessioni per accertarmi di non star perdendo il senno. Riprovo: niente. Allora smonto tutto per poter rivedere l’intero circuito. Prendo il Variac e lo rimetto in verticale: misuro la tensione, tutto ok. Controllo tutti i cavi, persino l’alimentatore degli strumenti, sembra tutto in regola. Rimetto in orizzontale il Variac, ricollego tutto quanto, provo: zero. Nemmeno l’ombra di un elettrone pare uscire da quelle prese a banana.

Non contento (eufemismo per riassumere un’antologia di improperi non ripetibili qui) smonto di nuovo tutto quanto e rimetto il Variac in verticale per ri-misurarlo. La tensione c’è, sia in ingresso che in uscita. Giro il cursore, vedo la variazione sul tester. Per fortuna che mi è venuto in mente di tenere tutto connesso in quel modo mentre rimettevo in orizzontale il Variac: in quel momento la tensione sparisce dal tester, che precipita a zero volt. Rimetto in verticale, la tensione miracolosamente torna. Ecco il “guaio”: la spazzola di contatto del cursore, con l’uso, si era lievemente consumata e, seppure con una molla di tenuta, non arrivava più a fare pieno contatto con l’avvolgimento. Mettendolo in orizzontale, il contatto spariva del tutto per via di quel fenomeno tanto amato e studiato da Isaac Newton: la gravità. È bastato caricare un po’ la vite di tenuta della molla e tutto è tornato a funzionare.

L’uso sul campo

Intanto posso dire con grande gioia che è un grande sollievo avere finalmente il Variac sul banco di lavoro, in una posizione accessibile ma non ingombrante e in condizioni di sicurezza elettrica (salvo per la questione isolamento galvanico, ma è un compromesso che ho scelto di accettare; e poi i Variac – compreso il mio – li vendono marchiati CE, ma su questo argomento tornerò in altro post ché ho molto, moltissimo da dire sull’aspetto della sicurezza elettrica e sulla ridicolaggine della certificazione).

Il problema di fondo nell’usare tensioni pericolose è che non devi avere nessuna distrazione: occhi puntati su ogni movimento delle mani, del cacciavite, del puntale del multimetro. Perché purtroppo non puoi sempre lavorare disconnesso, spesso occorre misurare l’ingresso dell’alimentatore e va da sé che deve esserci la tensione di lavoro. Se oltre ai cavi di misura e quelli di alimentazione devi anche tarare qualche trimmer o connettere una sonda, riuscire a badare alla sorgente di tensione diventa più difficile e rischi davvero di fare qualche macello.

Test della tensione di uscita

Test della tensione di uscita

La funzione principale del Variac, nel mio laboratorio, è quella di poter testare un alimentatore in modo graduale, senza introdurre di colpo la tensione di rete a 230 Volt. Da quando uso questo metodo ho risparmiato diversi fusibili, qualche decina di condensatori esplosi, un po’ di nebbia azzurra e discreti spaventi (ho già un’età, devo pure badare alla salute). Di solito imposto il Variac a zero volt – e benedetti gli strumenti a pannello che ti dicono subito se non stai per fare una cazzata – e poi, una volta collegati i morsetti all’alimentatore, inserisco i jack nelle prese a pannello. Inizio a elevare la tensione gradualmente, di 5 o 10 volt per volta, tenendo d’occhio l’amperometro. Appena vedo che c’è il minimo assorbimento controllo la tensione a cui sono arrivato: se sono intorno agli 80 / 100 volt significa che il trasformatore sotto test inizia a lavorare, così come il circuito a valle, e quindi un assorbimento è fisiologico. Se vedo che i milliAmpere sono un po’ troppi rispetto al previsto stoppo tutto e cerco l’eventuale inghippo.

Lo stesso metodo lo uso con gli alimentatori in CC quando ho un circuito nuovo (o con probabile guasto) da provare: se una scheda, per esempio un Arduino, ha un assorbimento a regime di circa 80 mA, alimentandola gradualmente si può controllare se l’assorbimento diventa pericoloso già a 2 volt (per esempio sale improvvisamente a 120 mA), evitando così di friggere la scheda senza aver capito il problema che la attanaglia. Lo stesso vantaggio si ottiene con il Variac, che però lavora a monte del trasformatore di isolamento del circuito in prova.

Qualche giorno fa, con uno dei soliti prototipi di alimentatore, il Variac mi ha risparmiato il rischio di prendermi in faccia lo scoppio di un condensatore da 1000 uF: su una tensione duale avevo invertito la polarità di quel condensatore (capita a tutti, anche ai migliori, anche a chi vi dice che non gli capita mai). Dando tensione in modo graduale ho avuto modo di sentire un lieve sfrigolio sul circuito, così ho preso la termocamera e il condensatore in questione già stava a 50 °C, pronto a fare il botto.

Allego ancora qualche immagine del lavoro svolto, conscio che il cablaggio potrebbe essere molto più estetico. So che potete fare di meglio, attendo con piacere le prove.

 

Il carico elettronico, o dummy load – parte #1

Il carico elettronico, o dummy load – parte #1

Quando ci troviamo per le mani un alimentatore, se siamo animati dallo spirito della ricerca e della curiosità è normale che ci poniamo delle domande: è davvero in grado di erogare la potenza dichiarata sulla targhetta? La tensione nominale sarà uguale a quella effettiva? La corrente continua sarà davvero “continua” oppure ci sarà un residuo di alternata? E quanto sarà “grande” questo residuo in alternata, o ripple? Un alimentatore con cosa va misurato? Posso farlo da me o devo comprare strumenti costosi? Sarebbe utile un carico elettronico?

Costo stimato: circa 25 €

Difficoltà: principiante

Per avere queste risposte basta relativamente poco, dove il “poco” dipende da quale scala di valori vogliamo ottenere. Se il nostro obiettivo è capire se c’è un residuo di alternata in un alimentatore ci basta un multimetro da 40 euro, se invece vogliamo distinguere il ripple dal rumore (noise) in maniera precisa dobbiamo salire di prezzo fino a poter disporre di oscilloscopi, carichi elettronici e delicatissime sonde differenziali che costano più della somma degli strumenti in grado di leggerle.

Uno strumento indispensabile per qualsiasi test di base su un alimentatore è il carico elettronico, o dummy load. Si tratta di un “simulatore di resistenza” che, applicato all’uscita dell’alimentatore sotto test, permette di applicare appunto una resistenza di carico e far erogare all’alimentatore la corrente desiderata. Uhm, scritto così potrebbe sembrare un po’ complicato (o stupido, dipende da come lo si guarda). Diciamo che è una vera e propria resistenza (ho usato il termine “simulatore” perché la maggior parte dei carichi elettronici usa le proprietà dei mosfet di potenza per simulare appunto una resistenza variabile, ma di questo parleremo altrove) che viene messa fra il polo positivo e quello negativo di un alimentatore, facendo sì che scorra una determinata corrente attraverso essa. È come se mettessimo una lampada, o un motore, ovvero un cosiddetto carico.

Facciamo due calcoli

Veniamo alle cifre. Avete presente la legge di Ohm? Bene. In base ad essa, se voglio far erogare 1 Ampere ad un alimentatore da 5 Volt, devo applicare una resistenza da 5 Ohm (R = V/I ovvero 5 V / 1 A = 5 ohm). Facile, no? Certo, ma oltre al valore in Ohm non dimentichiamo un altro parametro fondamentale: la potenza, o capacità di dissipazione, espressa in Watt. I Watt nella corrente continua sono il risultato di Volt x Ampere, quindi nel nostro esempio avremo 5 Volt x 1 Ampere = 5 Watt. Pertanto ecco che abbiamo costruito il nostro primo carico elettronico: una resistenza da 5 Ohm e 5 Watt posta fra polo positivo e polo negativo dell’alimentatore. Ma è davvero così facile? In teoria sì, in pratica dobbia prestare attenzione ad alcuni altri aspetti.

Se applico alla lettera l’esempio precedente, la mia resistenza arriverà a una temperatura prossima agli 80/90°C in pochi secondi. Se fate come facevo io da ragazzo per capire se una resistenza scaldava (il metodo “proviamo a toccarla col dito indice”), a quelle temperature è quasi garantita la scottatura, quindi prestate parecchia attenzione. Questo accade perché la potenza nominale della nostra resistenza è al suo limite massimo. Se vogliamo dimensionare adeguatamente il nostro primo carico fittizio, dobbiamo scegliere una resistenza da 10 Watt: scalderà di meno e durerà più a lungo. Come per tutti i componenti, anche per le resistenze di potenza (così si chiamano in autodidattese le resistenze con valori superiori a 2 Watt) è opportuno stare larghi coi valori di dissipazione massima e corrente massima. Se sono previsti 5 Watt di potenza dissipata, mettete la resistenza da 10 Watt. Se ne sono previsti 50, mettete quella da 100. Non lesinate su queste cose, ne trarrete solo vantaggi.

Complicazioni

Cosa succede però quando il mio alimentatore non è a 5 Volt come nell’esempio? Prendiamo un alimentatore che eroghi 12 V a 10 A massimi. Per fargli tirar fuori la massima potenza dobbiamo applicare una resistenza pari a 12 V / 10 A = 1,2 Ohm con una capacità di dissipazione di almeno 120 W (12 V x 10 A). E qui comincia a farsi problematica: se una resistenza da 5 W la troviamo da qualsiasi rivenditore, quella da 120 W (minimo, ricordate) è più difficile da reperire. In questi casi ci si mette a fare i conti per tre motivi:

  • trovare il valore di resistenza adeguato
  • trovare la capacità di dissipazione adeguata
  • trovare il compromesso meno costoso, salvando il portafogli

Calcolatrice alla mano, vediamo come si può risolvere la questione: sapendo che con le resistenze poste in serie i valori in Ohm si sommano, e poste in parallelo si dividono secondo le note formule che trovate ovunque sul web, possiamo trovare un compromesso consistente in 4 resistenze da 4,8 Ohm / 50 W poste in parallelo. Il valore ottenuto sarà di 1,2 Ohm con una “portata” di 200 W massimi. Peccato che le resistenze da 4,8 Ohm non siano standard, dovremmo sceglierle da 4,7 Ohm, ottenendo un valore di 1,17 Ohm circa, che con la tolleranza media delle resistenze di potenza (5%) potrebbe diventare 1,22 ohm o 1,11 ohm. Per un test di massima possono andare bene, ma se vogliamo la precisione non è questa la strada giusta.

Non dimentichiamo poi che dissipare 120W non è un gioco. Le resistenze di potenza (quelle corazzate, soprattutto) sono in grado di sopportare tale potenza perché hanno il filamento annegato in una specie di cemento antifiamma. Se però non vogliamo trasformare il nostro dummy load in una stufetta, o fare gli aloni marroni sul nostro banco da lavoro, o peggio ancora fare i nostri polpastrelli al barbecue, è opportuno che fissiamo le nostre resistenze su un’aletta di raffreddamento di adeguate dimensioni. Insomma, la vita è difficile anche per un modesto hobbista!

Costruzione di un semplicissimo dummy load

Come fare, dunque? Ecco la mia soluzione “da battaglia”, un semplice carico resistivo costruito su un’aletta di raffreddamento recuperata dal rottamaio usando una manciata i resistenze che avevo nel cassetto. Non è variabile in modo continuo, come potrebbe essere un carico elettronico, ma permette con pochi passaggi di applicare una resistenza espressa in una scala di valori abbastanza standard per i test su piccoli alimentatori a tensione fissa. Per costruirlo dovete procurarvi il seguente materiale (i link sono suggerimenti basati sui miei gusti personali e sulla qualità del rivenditore citato, ognuno si senta libero di acquistare ciò che desidera e dove desidera farlo):

Il dimensionamento delle resistenze è persin esagerato, se vogliamo fare un appunto. In questa configurazione è in grado infatti di dissipare da un minimo di 50 W a un massimo di 210 W. Ma mi sono tenuto largo perché magari usandolo con tensioni maggiori, fino a 12 V con 12 A per esempio, potremmo arrivare anche a 144 Watt di potenza dissipata (che non è sopportabile dalla singola resistenza, vedere avvertenze e tabella di riferimento). Come vedrete dalla tabella sotto riportata (calcolata sulle tre tensioni di alimentazione più comuni: 12 Volt, 5 Volt, 3,3 Volt), a seconda di dove posizionerò le mie sonde sulle banane di uscita, otterrò un carico resistivo di valore diverso e compreso da 1 Ohm a 8,7 Ohm. Per ognuno dei valori avrò il corrispondente in Watt e Ampere. Per praticità, se vorrete potrete stampare questa tabella su carta adesiva e applicarla sul carico, così da aver sempre sotto mano il massimo raggiungibile senza pericolo di overheating (sovrariscaldamento).

Attenzione: nel caso vogliate costruire il carico esattamente come rappresentato in questo post, non applicate carichi superiori a 50W per ogni singola resistenza! Pericolo di sovratemperatura! Vedere tabella di riferimento.

 

Tabella calcolo per carico resistivo

Tabella calcolo per carico resistivo

Schema dummy load base

Schema dummy load base

 

Lo schema è semplice (vedere figura a lato): le resistenze sono collegate in serie e a ogni giunzione c’è una presa fatta col cavo da 2,5 mm² che porta alla rispettiva banana. Alle banane vanno collegati i classici cavi con spina “a listello” in grado di portare la corrente prevista. Non usate cavi di sezione troppo piccola perché, oltre ad applicare essi stessi una resistenza aggiuntiva, scalderanno e si fonderanno (e non è bello, fidatevi). Con un multimetro posizionato sulla massima misura di corrente (tipicamente 10 Ampere) collegato in serie sul polo positivo, potremo controllare il reale assorbimento di corrente: questo valore è indispensabile se il nostro alimentatore non ha un display o un indicatore a lancetta con la misura della corrente erogata.

Nella fotogallery potrete vedere varie fasi e configurazioni utili al vostro scopo. Le resistenze usate nel mio prototipo sono di potenza inferiore a quella descritta nel progetto, ma erano le sole a mia disposizione.

Nella prossima puntata

E se volessi mettere sotto carico un alimentatore a tensione variabile, ad esempio per coprire il range da 1,5 a 24 V, con una resistenza fissa come quella usata nel primo esempio? L’impresa è fattibile ma poco edificante: ammesso che il nostro alimentatore possa erogare così tanti Ampere, succederebbe che verrebbe applicato un carico di 1,5 V / 1,2 Ohm = 1,25 A sulla tensione minima, e 24 / 1,2 = 20 A alla tensione massima (con una dissipazione potenziale di 480 W)! Come direbbe il buon Dave Jones: “Hopeless!”. Senza speranza! Per poter risolvere il problema dobbiamo applicare una resistenza di carico che mantiene invariata la corrente al variare della tensione, pertanto bisogna per forza usare un dummy load a corrente costante. Di questo però parleremo la prossima volta.

Risorse

Un po’ di link utili per facilitare il calcolo delle resistenze in parallelo e in serie, con una fondamentale aggiunta: il calcolo esatto della dissipazione

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